L’unica opera lirica di Robert Schumann fu composta tra la primavera del 1847 e la metà del 1848. Delusa la speranza di rappresentarla alla Hofoper di Dresda, il cui direttore Richard Wagner aveva duramente criticato il libretto, Genoveva fu data a Lipsia. Anche in questa sede fece una certa anticamera: la prima rappresentazione avvenne solo il 25 giugno del 1850, sedici mesi dopo che la partitura era giunta al teatro. Le recensioni furono sfavorevoli, ma l’accoglienza del pubblico sembra fosse buona. Nei Paesi di lingua tedesca il titolo vivacchiò fino agli anni Novecentoventi, poi scomparve dai cartelloni e ritrovò la scena solo nel 1996, a Bielefeld in Vestfalia. In Italia era arrivata nel maggio del 1951 a Firenze (André Cluytens) e un’altra messinscena s’avrà solo nel 2006 a Palermo (Gabriele Ferro). In forma d’oratorio la diressero a Radio Torino Vittorio Gui nel 1961 (tradotta in italiano) e Gerd Albrecht nel 1976; a Santa Cecilia, Wolfgang Sawallisch nel 1970. Amata dai musicisti ben piú che da storici e sovrintendenti, ebbe la prima registrazione ufficiale nel 1976, diretta dal tedesco-orientale Kurt Masur con un cast in cui spiccano i nomi d'insigni cantanti da camera. Seguirono quelle di Gerd Albrecht e di Nikolaus Harnoncourt, estimatore di Genoveva al punto d’affermare che “è un’opera d’arte per la quale si deve andare sulle barricate”. Ma anche oggi il titolo rimane quasi una rarità e il Tiroler Landestheater di Innsbruck può essere fiero d’avere inaugurato con esso la stagione 2022-23.
La ricerca d’un soggetto teatrale aveva impegnato Schumann sin dal 1840 e s’era estesa anche ai miti “moderni” di Tristano e dei Nibelunghi, per tacere di Till Eulenspiegel e del Corsaro byroniano. Decisiva fu la forte impressione avuta il 1° aprile 1847 dalla lettura della tragedia Genoveva di Friedrich Hebbel, autore a cui s’accostava per la prima volta. Il giorno stesso cominciò a comporre l’ouverture della futura opera, che sfrutterà molti motivi di essa, secondo un percorso contrario a quelli di Weber e Verdi.
La protagonista non va confusa con l'omonima santa patrona di Parigi, figura storica del secolo V, presto mitizzata. Il testo che infiammò Schumann deriva da una leggenda renana tardomedievale il cui schema richiama facilmente il Lohengrin: una sposa falsamente incolpata d’infedeltà da un pretendente respinto (Golo), l’accusa supportata dalle oscure arti magiche d’una donna misteriosa (Margaretha), l’innocenza incapace di difendersi. In tempi marcatamente maschilisti e impunemente femminicidi, la vicenda godette d’una diffusione popolare in Francia, Belgio e Germania che qualcuno è giunto a paragonare ai miti di Faust e don Giovanni. Circa duecento anni prima di Schumann se ne era avuta una “sistemazione” cattolica nell’Innocence reconnue ou Vie de Sainte Geneviève de Brabant del gesuita René de Cerisiers, che coronò la leggenda con un improbabilissimo lieto fine e le diede un riferimento storico: nell'anno 732 il re franco Carlo Martello (immortalato da Fabrizio De André) impose una battuta d'arresto all'espansionismo arabo in Europa con la vittoria di Poitiers. A seconda della personalità degli autori che se ne occuperanno, tra i quali s’incontra persino Mathilde Wesendonck, permane o scompare lo scioglimento edificante, generando una varietà di drammi che rivaleggia con le diverse Medee (non in tutte Genoveva resta di così adamantina innocenza). Il lieto fine manca sia nella tragedia di Hebbel (1843) che ispirò inizialmente il compositore, sia in quella, anteriore d’un buon quarantennio, di Ludwig Tieck, che fu adottata come fonte principale dal librettista Robert Reinick, buon amico di Schumann ma di scarsa o nulla esperienza teatrale. Il musicista trovò i suoi abbozzi improntati a un eccessivo lirismo e chiese a Hebbel se fosse disposto a fornirgli una versione musicabile della tragedia. Il loro unico incontro è raccontato dai due artisti in modo che più diverso non si potrebbe, ma è indubbio che il letterato, allora al culmine del successo, si guardò bene dal lasciarsi coinvolgere nella stesura del libretto.
In due parole, il salvataggio in extremis della sposa ingiustamente accusata, propiziato dal terrore del fuoco eterno indotto in Margaretha, la “maga cattiva”, dall’apparizione nel terz'atto dello spettro dello sventurato Drago, ucciso nel secondo come presunto amante di Genoveva dopo essere stato abbindolato come testimone della sua inesistente infedeltà; tutto questo tipico armamentario melodrammatico fu elaborato dallo stesso Schumann, che dopo il fin de non-recevoir di Hebbel s’era fatto librettista di sé stesso. La locandina della prima rappresentazione assoluta non indica l'autore dei versi, ma soltanto la derivazione "da Tieck e Hebbel"; la musica è dichiarata "del Dr. Schumann".
Hebbel non dovette comunque prendere male il diverso esito che l’opera diede alla vicenda, poiché dopo averlo conosciuto scrisse un séguito della propria tragedia, conformandola al libretto. Il caso è forse unico nella storia dei rapporti tra musica e letteratura: da questo punto di vista potremmo ironizzare che Schumann sia stato più fortunato di Verdi: riteniamo infatti estremamente improbabile che il duca di Rivas avrebbe approvato il nuovo finale della Forza del destino anche se non fosse defunto anzitempo (era rimasto “malcontentissimo” già della prima versione).
Il finale conciliatorio della Genoveva di Schumann chiude una vicenda che fa giustamente rizzare i capelli alla maggior parte degli spettatori nostri contemporanei: dopo essere stata quasi ammazzata su ordine perentorio del marito, il conte palatino Siegfried reduce dalla guerra di Carlo Martello, la protagonista, discolpata per terrore del fuoco eterno dalla principale falsa testimone a suo carico, è “riabilitata” e accetta di esserlo (invece, la sorte di Golo è lasciata nel vago: forse va a impiccarsi, forse precipita in un burrone, forse lo “accoglie provvido El Salvador”).
Probabilmente tutto questo ha sempre convinto poco. Non sappiamo quali soluzioni abbiano accompagnato le riprese tedesche a partire dal 1996, ma diciamo subito che quella “femminista” adottata dal Tiroler Landestheater appare oggi del tutto naturale: Genoveva rifiuta d’essere reinserita nel suo ruolo di moglie-schiava-oggetto. Questa “rivolta”, proposta dalle drammaturghe Susanne Bieler, Alena Pardatscher e Christina Alexandridis, è risolta registicamente molto bene, con pochi tratti semplici ed efficaci: la donna getta via i nuovi fronzoli del fastoso abito che le era stato strappato quando l’intrigo di Golo l’aveva fatta sembrare colpevole; e nella tunica chiazzata di sangue che le resta addosso comparirà anche per ricevere gli applausi finali. Si è quindi assistito a un ribaltamento del libretto, che ci ha ricordato l’operazione analoga, anche se di segno opposto, con la quale Florestano, al termine della regia di Guth per la direzione di Claudio Abbado, si svela complice d’un potere repressivo.
Nella prima parte dello spettacolo (i primi due atti) Genoveva è presentata come non vedente. Il regista Johannes Reitmeier spiega questo sia come adesione a un topos letterario caratteristico del romanticismo e anche di molte leggende medievali di santi, sia perché alla cecità s’accompagna spesso una particolare finezza introspettiva, sia ancora per sottolineare la condizione particolarmente indifesa e la vulnerabilità del personaggio, tipica femme fragile, sia infine con la bravura del soprano protagonista Susanne Langbein. Un paio d’occhiali affumicati e, all’inizio, un bastone bianco maneggiato quasi come un frustino d'amàzzone sono aggiunte sufficienti alla sua “meravigliosa arte di cantante-attrice” per rendere del tutto credibile l’idea del regista.
Dopo il suo imprigionamento, Genoveva resta assente dal palcoscenico per l’intero terz’atto; quando ricompare in procinto d’essere uccisa, è priva anche degli occhiali che ne mascheravano la cecità. La Langbein continua a muoversi come se non vedesse, ma al tempo stesso lascia supporre che qualcosa le si sia chiarito dentro. Anche se non appare che recuperi la vista come una Iolanta ante litteram, fa intendere d'avere conquistato una comprensione profonda della realtà che l’aveva sempre isolata. La musica di Schumann, pervasa nel finale da una sottile tristezza nonostante le parole encomiastiche del coro, riesce compatibile con le scelte drammaturgiche. A questo contribuisce molto la direzione musicale di Lukas Beikircher, non trionfalistica anche nei momenti bellicosi dell’inizio (ne riparliamo sotto).
Se lo spettatore ha subito chiare l’origine delle pulsioni vendicative di Golo, respinto e meritatamente insolentito da Genoveva, più oscure gli restano quelle di Margaretha, che diverse edizioni del libretto presentano come "nutrice" o "serva" (ma la locandina del 1850 non dava indicazioni). Il testo accenna al suo allontanamento dalla corte di Siegfried con l’accusa di praticare arti magiche, e Golo sarebbe stato l’esecutore dell’ordine. La donna, ricomparsa con sorprendente puntualità, spia Golo mentre bacia furtivamente Genoveva caduta in deliquio alla partenza del marito per la guerra, e gli promette non solo omertà, ma anche d’aiutarlo a “farla sua”. Fallito, per la sdegnata resistenza di Genoveva, il tentativo di conquista amorosa, Margaretha si converte nello strumento della vendetta di Golo. Partecipa sfrontatamente al tranello e nel terz'atto si tramuta in infermiera dall’ombelico scoperto. Con movenze che, perlomeno a un Italiano, ricordano di nuovo la canzone di De André, e con uno specchio straordinario come quello del futuro Klingsor, convince Siegfried, eroe di guerra trattenuto in convalescenza, che sua moglie è una sfrenata adultera.
La revisione drammaturgica trova per Margaretha motivazioni ben più specifiche: il programma di sala di Innsbruck la definisce “intima di Golo”; durante l’ouverture questi mima il brutale rifiuto d'un figlio avuto da lei. Nel séguito ella si riconosce, en passant, colpevole d’infanticidio per annegamento. L'idea prepara la “rivolta” di Genoveva, che alla fine Margaretha copre con il proprio pastrano, come per sottolinearne e proteggerne il "percorso di liberazione"; Siegfried resta perplesso in disparte.
Nel suo insieme, quel che accade sul palcoscenico rende felicemente attuale una vicenda che nella sua forma originaria sarebbe forse riuscita melensa. Al termine dello spettacolo, il pubblico applaude compatto e grato il regista e sovrintendente, che ha guidato con la sua ben nota cura e competenza l’interazione gestuale dei personaggi e la loro mimica.
L’allestimento e i costumi sono firmati da Michael D. Zimmermann, una delle “colonne” del Tiroler Landestheater, che una volta di più dimostra la sua straordinaria capacità d’attualizzare le vicende rappresentate intrecciando, in particolare, mode di vestiario proprie di epoche diverse e lontane. Il riferimento ai giorni del compositore nel taglio del cappotto militare di Siegfried e degli abiti di Genoveva, di Drago e del prelato che incita alla guerra contro i Mori, coesiste con allusioni ai tempi nostri negli abiti di Golo e dei due “bravacci” Balthasar e Caspar. Margaretha è caratterizzata, anche grazie al suo fisico, come una femme fatale d’un secolo fa, in pantaloni e cappotto di pelle (allo stesso periodo allude anche la “croce di ferro” con la quale Siegfried ritorna dalla vittoriosa guerra contro i Mori); ma alla fine, come all'inizio, ella compare in un semplice abito chiaro, indice di naturalezza e libertà negate e riconquistate. Gli anacronismi, in teatro, non hanno mai spaventato nessuno e, infatti, ne compaiono anche già nel libretto di Schumann, che attribuisce all'ottavo secolo, periodo in cui l'Europa latino-germanica si difendeva a fatica, concetti e terminologia del periodo marcatamente aggressivo delle Crociate, al quale mancavano ancora quasi trecentosettant'anni.
Gli elementi scenici sono ridotti all’essenziale e rendono facili i movimenti del coro, spesso armato di croci. Come sempre a Innsbruck, il palcoscenico girevole è sfruttato molto bene. La base rugginosa d’una macchina da guerra, mostrata da diverse angolazioni, serve da pulpito, da ingresso segreto da cui sbuca Margaretha, da stanza privata di Genoveva. Su di esso svetta quello che, a seconda del punto di vista, appare un cannone o un Crocifisso. Poche brande bianche creano l’ospedale militare in cui Siegfried è trattenuto nel terz’atto dalle molteplici arti di Margaretha. Un misero abituro sorge da terra come prigione di Genoveva in attesa d’essere assassinata. Le luci curate con mano sicura e misurata da Ralph Kopp contribuiscono in modo determinante al fascino dell’insieme.
Grazie alla drammaturgia, al gioco scenico e all’allestimento che abbiamo cercato di descrivere, lo spettacolo di Innsbruck fa piazza pulita delle riserve che si possono avere leggendo il libretto di Genoveva. Ma quel che ci ha più affascinato di quest’opera sono l’invenzione musicale e il suo stretto connubio con lo svolgersi della vicenda. Schumann divide la partitura nei tradizionali “numeri”, che però all’interno dei quattro brevi atti non sono separati da pause e comprendono anche gli stringati recitativi, spesso vicini all'arioso. La musica dura un paio d’ore; dopo l’ouverture si contano ventuno pezzi: la loro durata media è quindi di circa cinque minuti. I più estesi sono i tre del terz’atto, che insieme durano una mezz’ora scarsa e corrispondono alla parte più esclusivamente dialogica, con l’infame inganno ai danni di Siegfried e la minacciosa comparsa dello spettro di Drago che ribalta la vicenda. Le arie solistiche propriamente dette sono solo quella d’esordio di Golo e le due di Genoveva nel secondo e nel quart’atto; a esse s’affianca, splendido d’invenzione melodica, il Lied a due voci “Se io fossi un uccellino”, che all’inizio del second’atto avvicina ambiguamente soprano e tenore. Il grosso dei numeri è quindi costituito da “scene” colloquiali o di massa, con interventi talvolta molto estesi del coro. Ne sorge, a nostro parere, una drammaturgia musicale che coglie a fondo le divergenze dei personaggi e che nel finale del second’atto non lascia nulla da desiderare anche dal punto di vista della “tradizione”.
Schumann gareggia con Verdi, se non in efficacia di “parola scenica”, in concisione drammatica, e la “brevità” sembra essere un idolo suo come di Puccini. Si può forse vedere Genoveva come un séguito di Lieder concatenati, e in effetti la durata dei singoli atti è più o meno quella d’un ciclo di essi. Ma la continuità, pur nella rinunzia a ogni effetto strappapplausi tipico dell’opera più di cassetta, appaga grazie allo scavo psicologico dei personaggi. L’orchestra comprende l’ottavino, i quattro corni, i tre tromboni e il basso tuba dell’uso italiano coevo, ma sostituisce grancassa e piatti con il tam-tam. La limitata estensione dei numeri musicali non costringe Schumann al confronto con la tecnica dello sviluppo che rende spesso le sue sinfonie e sonate meno interessanti dei folgoranti aforismi pianistici. Il compositore ha quindi agio di concentrarsi a fondo non solo sull’invenzione motivica, ma anche sulla strumentazione: sin dalle prime note dell’ouverture suona molto felice la corrispondenza tra timbro e linea melodica.
La musica di Genoveva ci è apparsa particolarmente congeniale al direttore Beikircher che, attentissimo ai colori dell’orchestra, ha colto a fondo il particolare approccio drammatico di Schumann, dando sempre l’opportuno rilievo alle frasi ma evitando di forzarne il significato verso esiti di vuota magniloquenza; esemplare l’equilibrio sonoro tra palcoscenico e buca e la trasparenza di questa. Il Tiroler Symphonieorchester Innsbruck ha coadiuvato lo Chefdirigent del teatro con entusiasmo ed esiti di cordiale cantabilità che obliterano qualche trascurabile esitazione. Lo stesso può dirsi dei Chor und Extrachor des Tiroler Landestheaters Innsbruck, preparati come sempre da Michel Roberge e impegnati in ben nove numeri: scatto, compattezza, capacità di dialogare con i solisti e disinvoltura sulla scena sono esemplari.
La protagonista Susanne Langbein, della quale abbiamo già ricordato la maestria scenica, ha fatto parte dell'ensemble del TLT dal 2010 al 2017 e da allora ritorna spesso a Innsbruck come apprezzatissima ospite. Il soprano di Coburg possiede un’intonazione perfetta, che lo scorso maggio gli ha consentito un’interpretazione indimenticabile di Kat’ja nella Passagierin di Weinberg. In questo nuovo ritorno, grazie anche alla grande omogeneità di registro e alla chiarezza esemplare della dizione, ha saputo rendere tutte le sfumature d’un personaggio che deve trascorrere dalla fragilità spaventata alla rassegnazione passando per momenti di regale sdegno.
Tutto il resto della compagnia di canto è costituito da risorse interne del teatro. Golo, coprotagonista maschile, è stato Jon Jurgens. Il tenore statunitense, vocalmente molto corretto, ha reso con proprietà la natura tormentata del corteggiatore infelice e del cattivo insicuro perché consapevole dell’improprietà delle sue avances e del suo desiderio di vendetta. E non meno efficace è risultato negli ambigui dialoghi con Margaretha. Questa è stata il mezzosoprano russo Irina Maltseva, formatasi alla prestigiosa scuola Gnessin di Mosca, perfezionatasi al Mozarteum e ora in forza al TLT dopo sei anni d’esperienza allo Staatstheater di Norimberga. L’artista dispone d’un mezzo vocale di grande estensione, ben fluido e sontuosamente timbrato. La parte della “strega malvagia” che alla fine si pente non ha pezzi solistici, ma comporta una presenza di primo piano in quelli d’insieme, dove la sua voce è sempre risaltata quanto dovuto e senza mai “sforare”. A questo s’aggiungono una presenza scenica di prim’ordine e una sfaccettata mimica facciale, che, unite ai pregi musicali e tecnici, hanno dato vita a una figura che resterà nella memoria.
Conte Siegfried è stato Alec Avedissian, che ha dimostrato d’avere al suo arco tutte le corde necessarie per affrontare la parte, non priva d’insidie interpretative. La musica di Schumann sembra “raccontare” meglio il suo ruolo come zimbello di Margaretha e di Golo nel terz’atto che non il rapporto con la moglie Genoveva nel primo e nel quarto, del resto risolto da drammaturgia e regia nel senso della freddezza e della brutalità. Il baritono bulgaro ha abilmente evitato ogni enfatizzazione.
Johannes Maria Wimmer, con la sua voce robusta e la sua capacità di calarsi bene in ogni personaggio che affronta, è stato Drago, il fedele Haushofmeister che salva da morto i suoi padroni. Jochim Seipp, uno dei veterani dell’ensemble di Innsbruck, ha dato correttamente voce al vescovo Hidulfus. I due armigeri Balthasar e Caspar sono stati, con bell’equilibrio, Oliver Sailer, dell’ensemble, e Julien Horbatuk, del coro del TLT.
Alla fine, festeggiatissimi la Langbein, la Maltseva, Beikircher e, come abbiamo già detto, Reitmeier. Accolti molto bene tutti gli altri. Nessun segno di dissenso.
Si replica fino al 18 novembre, per un totale di nove recite; in alcune Florian Stern canterà Golo invece di Jon Jurgens. La produzione di Innsbruck ha dimostrato che Genoveva è davvero, come scrisse Ulrich Schneider, un “lavoro capitale del romanticismo operistico tedesco”, e che merita d’entrare finalmente in repertorio.
La recensione si riferisce alla prémière del 24 settembre 2002.
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